giovedì 26 luglio 2012

Come il Muro fu ricostruito


di Giuseppe Sacco
Vent'anni fa, il 30 Novembre del 1989, un ordigno esplosivo di altissima perfesione tecnica, colpiva e uccideva Alfred Herrhausen, europeista convinto e membro del Comitato di Direzione della rivista, da me diretta,  "The European Journal of International Affairs", alla cui collezione i lettori potranno accedere cliccando su http://www.europeanjournal.org/issues.htm Su quella morte - e soprattuto sull'organizzazione che aveva voluto l'eliminazione di questo banchiere anomalo - è risultato sinora troppo delicato fare luce. Ma il significato politico di quel gesto criminale è assai chiaro, così come l'intento dei mandanti di spazzar via le occasioni che sembravano offrirsi all'Europa dell'Ovest e dell'Est con l'evento che si era verificato esattamente tre settimane prima: l'abbattimento del Muro di Berlino.


Ogni grande vittoria, ogni storica conquista ha – inevitabilmente – il suo costo, in genere un costo nascosto. E’ quello che gli economisti chiamano “il costo di opportunità”, e che corrisponde a tutto ciò cui si è dovuto rinunciare per ottenere quel che si è ottenuto.
Vent’anni e tre settimane esatte dopo il crollo del Muro di Berlino, che aprì la strada alla riunificazione della Germania e poi al crollo del Comunismo realizzato e alla dissoluzione dell’URSS, ci si può chiedere perché mai questa regola della storia non dovrebbe valere anche per le grandi conquiste degli anni che vanno dal 1989 al 1991. Chiedersi cioé non ci stato un “costo di opportunità” per questi straordinari avvenimenti, qualcosa d’altro cui si è dovuto rinunciare. Nella gioia che quell’evento provoca ancora a vent’anni di distanza, si esita a rispondere affermativamente, e a chiedersi quale mai sia stato questo prezzo, e se sia comparabile al valore di quel che si è ottenuto.
Perché non c’è dubbio che quel  che venne realizzato in quel breve volgere di mesi è molto importante per la storia europea. Due Nazioni “di pari nobiltà” – avrebbe detto Shakespeare – tra le quali “per antica ruggine” e per contrastanti ambizioni di gloria c’erano state interminabili guerre, sono risorte dalle loro rovine: la Nazione germanica e quella russa, in un contesto in cui nessuna di esse può più perseguire ambizioni imperiali. Anzi, finalmente liberate dal soffocante carico di quelle ambizioni, avevano delibatamente rinunciato a farlo..
Eppure, un po’ prima che – tre settimane fa – da ogni parte venissero pronunciati i discorsi di circostanza, non è mancata una autorevole voce a imprimere una sfumatura meno trionfalistica a quelle rievocazioni, a ricordare quale sia stato il “costo di opportunità” di quegli eventi. “Abbiamo avuto vent’anni, dopo la Guerra Fredda – ha detto infatti Michail Gorbachev – per costruire un nuovo ordine mondiale. Ma li abbiamo sprecati”. E li abbiamo sprecati, in particolare,  perché non si è capito, o non si è voluto capire, quanto diversa fosse la nuova Russia dalla vecchia Unione Sovietica, la disponibilità che in quegli anni – e per molti anni dopo di allora – animava il popolo russo nei confronti dell’Occidente, delle sue idee e del suo sistema politico-istituzionale.
Il prezzo più alto, il più pesante “costo di opportunità” è quello che venne allora pagato dall’Europa, e un prezzo il cui ammontare – come dimostra l’irrilevanza della sua attuale, pietosa leadership - si accresce pericolosamente ogni giorno di più. Perché era proprio all’Europa che il crollo del Muro offriva un’occasione che non è stata colta; un’occasione ancora più grande di quanto non siano stati la riunificazione tedesca, e l’accesso all’indipendenza  dei popoli dell’Europa centro-orientale, per secoli stretti nella tenaglia dei due opposti espansionismi.
Certo, sia per calmare le ansie francesi sia per contrapporre la “europeizzazione della Germania” alle tendenze verso la “germanizzazione dell’Europa”, il Cancelliere Helmut Kohl ha favorito il Trattato di Maastricht e la creazione dell’Euro. Ed ha aggiunto un tassello importantissimo alla pacificazione tra Berlino e Parigi, la cui rivalità aveva per oltre tre secoli lacerato l’Europa occidentale. E’ stata così posta la parola “fine” in calce ad una sanguinosa e distruttiva vicenda che era costata al Vecchio Continente la perdita del proprio primato politico, culturale ed economico nel mondo, e che aveva consentito a due paesi “laterali”, la Gran Bretagna e la Russia, di costruirsi imperi mondiali cosi giganteschi, da portarli a nuovamente trovarsi faccia a faccia addirittura in Alaska.
Ma nel pericoloso mondo del XXI secolo, è chiaro che la pacificazione franco–tedesca non basta, neanche con i tardivi e malcontenti accodarsi di un’Inghilterra in piena decadenza, a stabilire su base permanente la pace alle antiche nazioni europee. Perché, in un mondo in cui altri continenti stanno inesorabilmente scivolando verso guerre che promettono di essere terribili, la pace di cui esse hanno goduto nel cinquantennio postbellico possa divenire veramente stabile, è indispensabile che alla riconciliazione franco-tedesca si accompagni una definitiva e irrevocabile riconciliazione euro-russa, o perlomeno russo-tedesca. E il crollo del Muro, il dissolvimento dell’impero sovietico e quello della stessa Urss ne offrivano l’occasione.
Un’occasione che però è andata perduta, tanto che oggi da ogni parte proliferano i corifei di una “nuova guerra fredda”. E pochi anni fa, Vladimir Putin – comprensibilmente, dal suo punto di vista, e soprattutto riflettendo l’amaro ripensamento del popolo russo – è giunto a considerare la separazione della Russia dai popoli che avevano sempre condiviso la sua storia come “ la più grande tragedia geopolitica del XX secolo”.
E lo spreco che si è fatto di quell’occasione non si è ripercosso solo a danno dell’ Europa orientale e Balcani, dove ha portato ad una straziante guerra civile, e alla nascita di rissosi e feroci staterelli tribali. Al contrario, quello storico spreco si è ritorto sul cuore stesso dell’Europa, impedendo che nascesse una collaborazione alla pari tra Francia, Germania e Polonia, ed in generale contribuendo ad impedire che si costruisse quella che il suo originario promotore, Michail Gorbachev, chiamava a quel tempo la “casa comune europea”.
Certo, il momento di Gorbachev, sulla mutevole scena russa, è durato troppo poco perché questa “casa” potesse avere solide fondamenta. Ma della brevità del suo passaggio è – in una misura che ancora oggi non è possibile valutare – responsabile lo stesso Occidente. Anche perché, di questo progetto, Gorbachev può vantare il copyright per quel che riguarda il nome, mentre il disegno vero ed articolato – comprendente una ristrutturazione guidata congiuntamente da Mosca e dall’Occidente e una privatizzazione graduale delle economie dell’intero mondo comunista – era nella mente e negli studi di un grande banchiere tedesco, il Presidente del Consiglio di Sorveglianza della Deutsche Bank, Alfred  Herrhausen.
Non a caso, Alfred Herrhasen era stata la prima personalità straniera che Gorbachev aveva ricevuto non appena eletto Segretario Gnerale del PCUS, nel Marzo 1985. E non a caso, appena tre settimane dopo la caduta del Muro, il 30 Novembre 1989, Alfred Herrhausen è stato assassinato da terroristi di alta professionalità, in una trappola mortale sui cui autori e mandanti sembra – ancora oggi, a vent’anni di distanza – sia ancora troppo presto perché si possa sapere qualcosa.
Non c’è dubbio che Herrhausen fosse al centro delle grandi strategie. E ci stava non per qualche oscuro interesse o ambizione di potere, ma per il suo convincimento che l’ora dell’unità del continente fosse ormai giunta, che la sua forza economica attribuisse all’Europa il compito di ricostruire l’economia dei paesi dell’Est e della stessa Urss, e che questo compito potesse essere svolto in una maniera che il Cremlino poteva considerare compatibile con i propri interessi di sicurezza. Pochi come Herrhausen erano appassionatamente convinti che, ora che il dopoguerra appariva finito, il rinnovamento dell’Impero russo, il mantenimento di una garanzia sul suo "near abroad", e persino la transizione dal comunismo a qualche forma di politica meno totalitaria, fossero possibili, col sostegno di quelle forze economiche che egli stesso rappresentava al meglio.

Ma era chiaro che le idee di quest’uomo, collocato al vertice del principale centro di potere economico della maggior potenza industriale d’Europa erano fatte per apparire a qualcuno come troppo ambiziose, così come pericoloso appariva il buon rapporto che egli intratteneva con Michail Gorbachev.
Ma se Herrhausen aveva chiare le possibilità offerte all’Europa – e alla Germania – dalla conclusione della Guerra fredda, egli altrettanto chiaramente sottovalutava i vincoli che alla Germania – e a tutta l’Europa –  erano stati imposti dalla conclusione della Seconda guerra mondiale, così come Gorbachev chiaramente sottovalutava la hubris di potenza e di vendetta suscitata in alcune fazioni politiche del mondo occidentale la non infondata sensazione di aver vinto la Guerra Fredda. Herrahuasen era troppo l’uomo di una Germania nuova, che ha  quasi del tutto dimenticato il peso del passato nello sposare con grande slancio l’ideale dell’Europa unita, pacificata, e agli altri ed a se stessa amica.
A qualcuno, forse a molti, tutto questo non piaceva. E coloro che si sono chiesti chi fossero mai questi – o queste – "qualcuno" non hanno ancora potuto, venti anni dopo l’attentato, darsi risposta. Certo è che c'era “irritazione nella finanza internazionale per il gioco a tutto campo di Herrhausen”.
Egli aveva suscitato troppe “aspettative kennediane” ed era andato a sfidare il lupo nella sua tana quando, pochi giorni prima di morire, aveva illustrato sul Wall Street Journal la propria Ostpolitik economica, la visione di una Germania e di una Deutsche Bank "ponti" fra Est ed Ovest, motori della riconversione industriale e del nuovo sviluppo democratico dei paesi usciti dal freezer comunista. Non contento di ciò, Herrhausen era sul punto di pronunciare a New York un discorso sulle strategie che la Banca Mondiale avrebbe dovuto seguire per favorire la graduale trasformazione del blocco dell’Est e per la sua integrazione nel sistema economico occidentale. Per questo anomalo banchiere animato da una grande visione e dotato di una grande personale capacità di leadership, l'Est non doveva essere terra di conquista, ma quasi terra di missione.
La data dell'assassinio di Alfred Herrhausen, data di oggi – 30 Novembre 2009, tre settimane dopo le celebrazioni per l’abbattimento di quell’orribile barriera di cemento che divideva in due la capitale tedesca – segna perciò il ventennale del giorno in cui del Muro è cominciata la ricostruzione. Ed è cominciata esattamente come nel 1961, con la chiusura dei “ponti” tra Est ed Ovest che Herrhausen aveva incominciato a costruire.
E che molti, diversi ed oscuri fattori abbiano giocato in questa tragica vicenda, è mostrato con grande evidenza dagli eventi che all’assassinio di Herrhausen hanno fatto seguito. Tra il giorno in cui egli fu “liquidato” – con una bomba estremamente perfezionata, innescata da un raggio infrarosso invisibile nella luce del mattino, e programmata da qualcuno che sapeva che quel giorno il banchiere si sarebbe trovato nella prima auto del suo quotidiano convoglio blindato –  ed il 1 Aprile del 1991, data dell’assassinio di Detlev Karsten Rohwedder, presidente dell'ente per la privatizzazione dei beni del defunto Stato tedesco.orientale, da parte di un ignoto tiratore scelto che usava un fucile di precisione in dotazione alla Nato, si consuma una tragedia per l’Europa intera. Ed è in questa tragedia che naufraga il progetto gobachoviano della Casa comune europea.
Quella che era stata immaginata come una vera rivoluzione, in Europa e nel mondo comunista. è stata così soffocata sul nascere . E non poteva non essere che così, perché nell’Occidente erano prevalenti le forze che volevano “stravincere”. Perché in Occidente veniva allora trionfalmente teorizzato che i nostri princìpi economici erano totalmente e per sempre vittoriosi, che dopo il Muro il sistema occidentale si sarebbe affermato come la forma definitiva della vita associata, e quindi si sarebbe giunti alla ”fine della storia”. “Miseria della filosofia!”, avrebbe detto un economista morto da più di cent’anni, e di cui tutti - in primo luogo gli anglosassoni - sono ancora più o meno schiavi: perché questa specie di definitivo regno dei cieli, si è poi realizzato non con la “seconda venuta” di Cristo sulla Terra, ma con l’avvento dei managers della Enron e di Bernard Madoff.
Col senno di poi, è facile dire che forse l’occasione di una svolta storica non esisteva veramente. Perché mancavano in Occidente le forze disposte ad accettare delle limitazioni al loro strapotere e alla loro arroganza. Anzi, dalla crisi del comunismo, quella che Charles Wright Mills chiamava the power élite era uscita animata da un fortissimo spirito di rivalsa per aver vissuto tanti decenni nel terrore di essere espropriata. E fermamente decisa a ritornare su quelle concessioni – in particolare il Welfare State – cui aveva dovuto sino ad allora piegarsi per ridurre l’appeal del Comunismo sulle masse popolari dell’Occidente.
Soprattutto c’erano in Occidente delle forze sociali che – visto il sistema comunista in difficoltà – non volevano rinunciare a stravincere. Da ciò è nato l’estremismo ultraliberista consacrato nel Washington consensus, il cui principale e più implacabile braccio secolare è stata proprio quella Banca Mondiale che Herrhausen voleva convertire alle proprie idee. Ne è conseguito un ventennio terribile, segnato – in politica - da momenti abietti, come lo scandalo Lewinski,  o tragici, come l’Undici Settembre. Ma soprattutto segnato, nella società e nell’economia, da un totale rigetto di un’altra idea di Herrhausen, quella che lo aveva portato al vertice della Deutsche Bank, E cioè l’idea secondo la quale era inevitabile che il mondo della finanza avesse potere, ma che doveva usarlo in maniera verantwortungsbewusst, in maniera consapevole delle proprie responsabilità. Di questo rigetto, la crisi finanziaria degli ultimi due anni è stata la inevitabile conseguenza.
Il ventesimo anniversario della morte di Alfred Herrausen offrew così l’occasione di uno sguardo d’insieme al mondo di oggi: un mondo pericoloso, ed esso stesso globalmente in pericolo, in cui incurabili fattori di guerra fermentano in Medio Oriente, ed ancor più in Asia. Una situazione che fa capire perché persino Gorbachev, il principale attore della vicenda che ha portato al crollo del comunismo, all’abbattimento del Muro e alla dissoluzione dell’impero sovietico – o comunque l’uomo che ha messo in moto il meccanismo che avrebbe portato a tutto ciò – ha potuto malinconicamente constatare che oggi il mondo non è un posto molto migliore di allora.
Ma soprattutto un mondo in cui i muri sono proliferati dappertutto, non solo attorno alla Cisgiordania e a Gaza, o tra Messico e USA, ma anche tra Ceuta e il Marocco, dove una feroce barriera fisica separa due realtà tra le quali il dislivello di ricchezza è di venti ad uno. Un mondo, soprattutto, in cui appare evidente la possibilità che una muraglia torni di nuovo a separare l’Europa dalla Russia, nonostante la evidente sua complementarità di interessi politici e ed economici on la Germania e con l’Italia. E l’opera di costruzione di questa muraglia ha avuto il suo sanguinoso inizio giusto venti anni fa, il 30 Novembre del 1989, con il sacrificio di un banchiere tedesco forse troppo in anticipo sui tempi, ma certo animato da un ideale grandioso e assai nobile. Un banchiere ed una visione che – allo stato delle cose – la sua stessa patria sembra aver paura di ricordare.
g.sacco@yahoo.fr


da http://www.geopolitica.info/Notizia.asp?notizia=595

giovedì 19 luglio 2012


1 - PRESENTATO A ROMA IL LIBRO DI STEFANO DELLE CHIAIE (Meridiananotizie)

"L'aquila e il condor" questo il titolo del libro di Stefano Delle Chiaie, una delle figure più carismatiche e influenti del Neofascimo italiano, leader storico di Avanguardia Nazionale e presentato al Teatro Anfitrione di Roma. Accusato dei peggiori crimini, piazza Fontana compresa, e ricercato dalle polizie di mezzo mondo, il suo nome è stato associato ad alcuni dei fatti cruenti e misteriosi del passato recente. Un racconto che getta nuova luce su alcuni degli episodi più discussi degli Anni di piombo.


2 - DELLE CHIAIE: CI PROPOSERO DI RAPIRE MORO NEL 1964 Silvana Mazzocchi per "la Repubblica"

Una sera di luglio del 1964 Stefano Delle Chiaie, esponente di punta dell' estremismo neofascista, incontra Peppe Coltellacci nel suo appartamento all' Eur. L'ex repubblichino lo aspetta in compagnia di uno sconosciuto. «Bisogna sequestrare Aldo Moro per impedirgli di andare in Parlamento a presentare il nuovo governo», propone Coltellacci al capo indiscusso di Avanguardia nazionale. Il rifiuto fu il silenzio. «Io e i miei accompagnatori ci alzammo all' istante, salutammo freddamente e ce ne andammo», così almeno sostiene Stefano Delle Chiaie.

Pochi giorni dopo, Aldo Moro insediò il suo secondo governo e colpisce la coincidenza con quanto, a seguito dello scandalo Sifar del ' 67, emerse sul Piano Solo e sul golpe progettato tre anni prima dal generale Giovanni De Lorenzo. Non andò in porto soltanto per un soffio, invece, un altro colpo di Stato, quello ordito dal principe Valerio Borghese nel dicembre 1970, fallito in extremis per l' atteggiamento ambiguo delle alte cariche militari coinvolte, che si tirarono indietro all' ultimo momento, stando al racconto di Delle Chiaie, amico e sostenitore di Borghese.

Anni dopo "il Caccola" (così veniva chiamato Delle Chiaie, n.d.r. ), lanciato a livello internazionale, collaborò con Augusto Pinochet e per lui elaborò una "dottrina" della dittatura militare, per trasformare il colpo di Stato cileno in una tappa del processo politico "rivoluzionario" globale. Tutto questo Delle Chiaie lo racconta nella sua autobiografia pubblicata da Sperling & Kupfer, L' Aquila e il condor. Memorie di un militante politico, libro dalla faticosa gestazione, ottimamente curato da Massimiliano Griner e Umberto Berlenghini, ma che, mentre si dilunga su una versione dei fatti e misfatti dell' epoca, ben poco aggiunge alla verità storica su mezzo secolo di misteri d' Italia, su un rocambolesco curriculum di ricercato speciale e sul coinvolgimento dei "cuori neri" chiamati in causa dalle vicende giudiziarie per stragi e complotti.

Un compendio di memorie, in gran parte già esternate nelle sedi processuali e dinanzi alle Commissioni parlamentari, che resta comunque un documento assai intenso per quanti siano interessati a conoscere quel magma da guerra fredda che nel nostro paese rese tutto possibile pur di fermare il fantasma dell' avanzata comunista, nonché gli ambienti e le convinzioni in cui si dipanò quel tempo esplosivo, popolato da servizi segreti deviati, infiltrati, provocatori e intrecci mai chiariti.

Delle Chiaie, decenni trascorsi da latitante nella Spagna franchista, in Portogallo, in America latina o chissà dove, non ha più pendenze giudiziarie, essendo stato assolto o prosciolto da tempo da tutte le imputazioni, ricorda il suo avvocato Giuseppe Pisauro, comprese quelle relative all' omicidio del giudice Vittorio Occorsio, alla strage di Piazza Fontana e all' eccidio di Bologna. Nello scrivere la sua autobiografia, da uomo libero avrebbe dunque potuto fare almeno un po' di chiarezza sulla madre di tutte le accuse a lui rivolte e poi dissolte, la bomba del 12 dicembre ' 69. E invece niente. Riferisce nella postfazione Luca Telese che, durante il primo incontro con Delle Chiaie, "il Caccola" gli confidò «che i tempi gli sembravano maturi per ammettere che nella strage del' 69, aveva visto la mano degli ordinovisti veneti» (ormai assolti). Affermazione che, pur senza chiamate di correo, avrebbe fatto sperare in una verità sostanziale che nel libro risulta invece «diluita, annegata e scomparsa in un diluvio di documenti, citazioni, fatti». Mancata l'opportunità, Delle Chiaie ripiega sui dettagli e soddisfa qualche curiosità.

Racconta perché venne chiamato "Caccola", un soprannome guadagnato senza dispiacersi nel 1950, quando iniziò, mingherlino e appena quattordicenne, la militanza nella sezione del Msi del suo quartiere. E ancora, il via vai dentro e fuori dal carcere (la prima volta venne arrestato nel ' 55 per aver sottratto una bandiera a un corteo di partigiani), il tentativo, fallito, di alleanza con frange dell' estremismo rosso nel ' 68, i dissensi con il Msi, la nascita e le opere di Avanguardia nazionale e degli altri gruppi del neofascismo estremista dell' epoca. Infine lui, sempre in odore di rapporti con i servizi segreti, fornisce la sua ricostruzione degli incontri con molti dei protagonisti di quella stagione: Guido Giannettini, (l' agente G), Yves Guérin Sérac direttore della misteriosa agenzia portoghese Aginter Press, il capitano del Sid Antonio Labruna. Ma poco o nulla risulta utile per svelare quel filo oscuro che lega i tanti misteri italiani le cui vittime, nella maggior parte dei casi, sono rimaste senza giustizia.


3 - VE LI RACCONTO IO I MISTERI D'ITALIA... Antonio Pannullo per "il Secolo d'Italia"

Il libro di Stefano Delle Chiaie L'aquila e il condor ha colmato un grosso vuoto nella storia politica italiana. E in particolare in quella dei movimenti alla destra del Msi (diremo "destra" per convenzione, perché sarebbe troppo complicato in questa sede avventurarci nello stabilire se il fascismo sia di sinistra o di destra). Avanguardia Nazionale è stato un gruppo politico che ha agito negli anni Sessanta e Settanta in Italia, e Stefano Delle Chiaie ne fu fondatore, insieme ad altri, e il leader.

Il volume è uscito per una casa editrice importante, Sperling & Kupfer, nella collana "Le radici del presente" diretta da Luca Telese, che della storia politica recente italiana è un esperto e che ha voluto con forza questa opera. L'autore di "Cuori neri" nella sua postfazione si lamenta un po' perché avrebbe voluto trovare di più nel racconto di Delle Chiaie. In certi anni Delle Chiaie era dipinto dai media come "la Primula nera", l'uomo che sapeva tutto, che era a conoscenza di tutti i misteri - e le stragi d'Italia - Ma forse così non era, come del resto provano le sentenze e gli atti processuali. Non c'era chissà che da trovare.

Avanguardia Nazionale, dice l'autore, era un gruppo extraparlamentare che faceva un certo tipo di attività politica. Almeno fino al momento in cui non si fece chiara quella che Delle Chiaie chiama una persistente campagna di "intossicazione" contro la runa di Odal, simbolo del movimento, tesa a far credere all'opinione pubblica che il gruppo e lo stesso Delle Chiaie avessero rapporti stretti e pericolosi con ambienti dei nostri servizi segreti. E fu questo che in realtà rovinò Avanguardia, screditata sulla base di costruzioni complesse e, secondo Delle Chiaie, non veritiere da parte del "sistema", come lo chiamavano gli attivisti dell'epoca, che fecero rapidamente scendere Avanguardia nella considerazione che c'era stata sino allora. L'operazione del sistema riuscì, pur tra tanti drammatici errori: come dice il grande comunicatore canadese Marshall McLuhan, una menzogna per diventare realtà ha solo bisogno che sia propalata da un certo numero di media per un periodo di tempo sufficientemente lungo. E qualcosa del genere sosteneva anche Karl Marx, a proposito dell'infangare e diffamare l'avversario politico fino a che la bugia non diventi verità.

E se ne sono visti tanti di questi esempi, e ancora in alcune circostanze si possono osservare, sia in ambito nazionale sia in ambito internazionale, nella distinzione manichea, ormai sistematica, tra "buoni" e "cattivi". Ecco: Avanguardia Nazionale era cattiva, e Delle Chiaie era il capo dei cattivi. I meno giovani ricorderanno certamente che in un certo momento storico Delle Chiaie diventò il parafulmine e il capro espiatorio di ogni nefandezza che avveniva in Italia: dietro ogni strage, ogni attentato, ogni bomba, c'erano lui e la sua organizzazione; accusato di tutto e di più, le calunnie erano tanto più credibili in quanto lui era all'estero latitante. Il tempo ha fatto giustizia di tutto, ma sono dovuti passare i decenni: Avanguardia e Delle Chiaie non si macchiarono mai dei delitti atroci a loro ascritti, ma ancora oggi la percezione della gente è diversa.

L'aquila e il condor ha numerosi meriti. Dà il suo contributo per far luce su episodi oscuri della storia della Repubblica: Piazza Fontana, Bologna, Ustica, piazza della Loggia e altri fatti. Delitti per i quali si è sempre seguita la pista nera e i colpevoli si cercavano in base a teoremi e pentiti, sistema che Delle Chiaie nel libro attacca duramente spiegando perché questi metodi non hanno mai condotto alla conquista della verità. Interessanti per gli addetti ai lavori la storia e la struttura di Avanguardia nazionale, galassia sconosciuta per i più: ma su questo Delle Chiaie non scende in profondità, non fa numeri, non fa cifre, non racconta episodi o strategie, limitandosi a far capire tra le righe che si trattava di un'organizzazione molto efficace, con una gerarchia precisa e con un servizio di autocontrollo interno. Che però non l'ha salvata dall'accusa di contiguità con gli onnipresenti servizi.

E forse è proprio per questo che Delle Chiaie dopo tanti anni ha rotto il silenzio, consegnando alla storia un libro nel quale si difende da tutte le accuse respingendole al mittente e spiegando che i rapporti con i servizi, sì, ci furono, ma solo nella misura in cui i servizi stessi tentarono a più riprese di infiltrarsi, comprare, depistare, delegittimare il movimento perché considerato troppo eversivo. Dalla lettura dell'opera si esce con la convinzione che Delle Chiaie abbia fatto un onesto lavoro di controinformazione, resa molto più credibile dagli altri fatti oscuri avvenuti negli ultimi anni, sempre a spese della destra italiana. Se in quegli anni abbiamo bevuto come acqua la propaganda antifascista ossessivamente messa in onda per decenni dai media, perché oggi non dovremmo leggere la difesa di chi di quegli anni fu protagonista e testimone? Nel libro c'è anche un interesse umano sfuggito a molti critici: lo strettissimo rapporto dell'autore con il comandante Junio Valerio Borghese, davanti al quale Augusto Pinochet si mise sull'attenti in colloqui cui partecipò lo stesso Delle Chiaie; il ruolo fondamentale di Avanguardia nella rivolta di Reggio del 1970; la storia terribile, dimenticata in Italia anche perché all'epoca passata in sordina, dell'omicidio, nell'ottobre 1982, di Pierluigi Pagliai, di Avanguardia (colpevole in tutto di renitenza alla leva), al quale in Bolivia i servizi tesero un agguato per poi riportarlo morente in Italia a bordo dell'aereo Alitalia "Giotto".

In precedenza un piano di eliminazione chiamato "Pall Mall" nei confronti di Delle Chiaie era fallito, ma a Roma vi erano stati alcuni omicidi dalla dinamica mai chiarita, come quello della giovane Laura Rendina, uccisa nel gennaio del 1981 «per errore». I servizi erano in fibrillazione per la strage di Bologna, non ne riuscivano a venire a capo, anche perché la pista degli inquirenti fu subito orientata in una sola parte, mentre numerose altre piste, elencate e spiegate da Delle Chiaie, apparivano - e appaiono ancora - molto più consistenti. Ma tant'è.

In pieno giorno, nella capitale boliviana, Pagliai venne attirato in una trappola e ferito a morte mentre stava parcheggiando. L'intera operazione è ben descritta da Delle Chiaie e non vogliamo anticipare nulla: vale la pena di leggerla. In seguito, per queste e altre vicende furono condannati uomini dei servizi per depistaggio ma, sottolinea ancora l'autore, non si indagò sul perché e per chi depistarono. Dal periodo sudamericano Delle Chiaie trae una riflessione importante soprattutto per i giovani: «...Mi sentii boliviano e capii cosa significasse in concreto che la mia Patria è là dove si combatte per la mia Idea». Il libro si conclude con il ritorno del leader di Avanguardia in Italia, i processi, il carcere, la libertà, il reinserimento. Il 20 febbraio del 1989. Bello anche l'episodio, pochi giorni dopo, dell'incontro con i "vecchi" camerati al "loro" bar, quello storico di piazza Tuscolo, zona dove tanti anni prima un adolescente aveva iniziato la sua avventura politica nella sezione del Msi di via Solunto (sezione? Era praticamente una grotta, racconta l'autore).

Alla fine del libro Delle Chiaie rende un commosso omaggio a chi con lui condivise il sogno, ambizioso, di «cambiare il mondo». E conclude: «Molti, anche sul fronte opposto, sognarono. Quando siamo stati costretti al risveglio, ci siamo trovati in un deserto di idee e di emozioni. Ma allora non fu più nobile il nostro sogno della realtà che ci sconfisse?». Certo, ma il sogno ha avuto costi esistenziali altissimi per tutta una comunità umana. Solo la storia dirà se veramente ne sia valsa la pena. Era ben prevedibile che il sistema (oggi si direbbe «i poteri forti») si sarebbe difeso.


4 - LA MALDESTRA INVENZIONE DI UNA TRADIZIONE RIBELLE - IL TENTATIVO DI LEGITTIMARE AVANGUARDIA NAZIONALE COME FORZA ANTISISTEMA IN UNA RISCRITTURA COSTELLATA DI OMISSIONI E INVENZIONI Saverio Ferrari per "Il Manifesto"

Ai più l'autobiografia di Stefano Delle Chiaie L'aquila e il condor. Memorie di un militante politico, Sperling&Kupfer, pp. 341, euro 18,50), ex capo di Avanguardia nazionale, potrebbe interessare davvero poco. Ma la sua uscita è stata accompagnata da un piccolo giallo. Nella recensione pubblicata da «La Repubblica», a cura di Silvana Mazzocchi, si riportava che nella postfazione Delle Chiaie avesse confidato a Luca Telese «che i tempi gli sembravano maturi per ammettere che nella strage del '69 aveva visto la mano degli ordinovisti veneti». La smentita dello stesso Delle Chiaie è giunta immediata. In effetti, la frase riportata non risultava nel testo. Alla fine, è stato reso pubblico un comunicato dove è sostenuto che si era solo trattato di «un disguido della casa editrice». Difficile non credere che quell'affermazione, per altro virgolettata, fosse, invece, stata registrata in uno dei colloqui preparatori del libro.

Nell'autobiografia in questione, comunque, delle Chiaie non esita a puntare il dito contro «Ordine nuovo», per i rapporti con i servizi segreti, e apertamente contro Guido Giannettini (l'agente Zeta del Sid) per aver partecipato il 18 aprile 1969 alla famosa riunione di Padova promossa da Franco Freda e Giovanni Ventura, in preparazione della successiva escalation di attentati (certamente quelli sui treni di agosto, come confessato da alcuni degli stessi autori). Giannettini, sostiene Delle Chiaie, fu per questa stessa ragione successivamente protetto dai vertici del Sid. In realtà l'ex capo di Avanguardia nazionale, già in una precedente intervista rilasciata (e mai smentita) all'ex missino e giornalista parlamentare Nicola Rao, comparsa nel 2008 tra le pagine de Il sangue e la celtica, aveva dichiarato che fu un errore «non essere intervenuti fisicamente su certe persone coinvolte in quei fatti». Persone che evidentemente conosceva. Colse anche l'occasione di precisare che disistimava «il Signor Facchini», uno dei massimi dirigenti di «Ordine nuovo». Guarda caso.

Per il resto l'autobiografia è una sequela di omissioni e fatti ricostruiti al limite della pura invenzione, per accreditare l'insostenibile, cioè la coerenza «rivoluzionaria» di Stefano Delle Chiaie. Impossibile, infatti, non vedere come la sua storia e quella di Avanguardia nazionale si siano intrecciate con tutte le possibili strutture di potere, in particolare quelle militari, non solo in questo Paese.

Dai suoi stessi racconti emergono i tratti di una ben strana organizzazione, in cui il primo presidente, Sergio Pace, se la faceva con una loggia massonica, mentre un altro dirigente, Peppe Coltellacci, legatosi ai servizi segreti, pensava di proporre nell'estate del 1964, all'ombra del golpe del generale De Lorenzo, il sequestro di Aldo Moro. Il tutto consolidando rapporti strettissimi all'interno delle forze armate e con il principe golpista Junio Valerio Borghese, uomo di fiducia degli Stati Uniti (come ampiamente comprovato dalle carte del Dipartimento di stato americano), qui presentato alla stregua di un «rivoluzionario» teso nientemeno che al «ribaltamento dello Stato borghese» (con il contributo della P2).

Decisamente surreale. Senza parlare dell'amicizia con Guérin Sérac, capo dell'Aginter Presse, una sorta di agenzia per i «lavori sporchi» collegata alla Cia, che peraltro finanziò lo stesso Delle Chiaie con un assegno di mille dollari, come accertato dalla magistratura. Anche la provocazione, compiuta nel 1965, con l'affissione da parte di Avanguardia nazionale di manifesti filocinesi inneggianti a Stalin, stampati a cura dell'Ufficio affari riservati (un episodio poco conosciuto preparatorio della strategia della tensione), nelle pagine del libro viene ridotta a una mossa per «ampliare le fasce extraparlamentari contro la partitocrazia».

Così dicasi delle operazioni di infiltrazione a sinistra, come quelle di Piero Loredan in Veneto o Mario Merlino a Roma, assunte alla stregua di genuine conversioni (strano che Merlino militi ancora nell'area neofascista). Idem per i diversi incontri, a fini sempre «rivoluzionari», con agenti dei servizi segreti italiani. Alla faccia di Ordine nuovo.

CON I GORILLA SUDAMERICANI Stefano Delle Chiaie e i suoi uomini operarono anche all'estero, prima in Spagna protetti dal regime franchista, poi in Sudamerica, al servizio di Pinochet, la cui sollevazione militare nel 1973 secondo il capo di Avanguardia nazionale fu addirittura «osteggiata dagli Stati Uniti» (povero Kissinger), poi in Costa Rica, in Argentina e in Bolivia. DSCDSC In Cile, quelli di Avanguardia nazionale furono reclutati dalla Dina, il servizio segreto, nella sezione incaricata di eliminare gli oppositori rifugiatisi all'estero, come Bernardo Leighton (l'ex-vice presidente del Cile) e sua moglie, a Roma il 6 ottobre 1975 (rimasero entrambi gravemente feriti) di cui delle Chiaie non dice nulla, dimenticando quanto confessato da Michael Townley, un cileno-americano agente della Dina, che ammise il suo ruolo di intermediario proprio con i neofascisti di Avanguardia nazionale, spostandosi a Roma nel luglio del 1975 per preparare l'attentato a Bernardo Leighton. Dichiarazioni giunte anni dopo, purtroppo, il processo, tenutosi a Roma nel 1987, in cui Delle Chiaie e Pierluigi Concutelli furono assolti per insufficienza di prove.

In Bolivia delle Chiaie partecipò, invece, nel luglio 1980 al cosiddetto «golpe della cocaina», portando al potere Luis Garcia Meza Tejada, con l'aiuto di neonazisti di vari paesi (tra loro anche il criminale di guerra Klaus Barbie) e dei gruppi paramilitari conosciuti come Los novios de la muerte (I fidanzati della morte), che si occuparono di eliminare i piccoli narcotrafficanti per poter giungere al controllo totale del mercato. Curiosa anche qui la lettura che ne viene data: «una rivoluzione contro la finanza internazionale».

Innumerevoli, infine, in tutto il libro le manipolazioni della verità. Solo per citarne alcune: lo studente socialista Paolo Rossi non morì affatto all'Università di Roma nel 1966, come scritto, «spintonato dalla calca di studenti, tutti di sinistra» ma perché aggredito da numerosi fascisti che lo fecero precipitare giù da un muretto, come immortalato da diverse fotografie; il viaggio in Grecia di una cinquantina di dirigenti delle principali organizzazioni neofasciste italiane, nell'aprile del 1968, nel primo anniversario del golpe, non fu «una scampagnata», dato che alloggiarono per una settimana in una caserma dal colonnello Stylianos Pattakos. Claudia Ajello non era iscritta al Pci, ma infiltrata dal Sid (fatto emerso nel 1985 nell'istruttoria bis riguardo la strage dell'Italicus), non per carpire nei circoli greci «notizie sui latitanti neri», ma per l'esatto contrario, dato che al potere c'erano ancora i colonnelli e che la colonia degli studenti greci era composta di dissidenti del regime; in Spagna a Montejurra, il 9 maggio 1976, non «esplose» all'improvviso «uno scontro fisico e militare» con i carlisti di Carlos Hugo, ma si trattò di un agguato premeditato a colpi di pistola nei loro confronti. Anche qui numerose fotografie a ritrarre la scena, con in primo piano proprio Stefano Delle Chiae insieme ad Augusto Cauchi, Piero Carmassi, Mario Ricci, Giuseppe Calzona e Carlo Cicuttini.

Delle Chiaie, con i suoi 76 anni, insieme a Pino Rauti, ormai uno dei grandi «vecchi» del neofascismo italiano, cerca, infine, di farci credere che in Italia, nel contesto del «regime consociativo Dc-Pci», che secondo lui controllava tutti gli apparati statali e di polizia, la strategia della tensione non sia stata altro che una perfida macchinazione dei comunisti e che l'unica alternativa al sistema fosse stata in quegli anni rappresentata solo da Avanguardia nazionale. Una contro-storia, forse da tramandare alle nuove leve. Ma i fatti hanno solo detto di un piccolissimo gruppo di squadristi fascisti, buoni per tutte le stagioni, con la fissa del colpo di Stato, al servizio, nel nostro Paese e all'estero, di tutti i peggiori progetti reazionari.

da http://www.dagospia.com/rubrica-6/cafonalino/cafonalino-er-caccola-stefano-delle-chiaie-leader-del-movimento-di-estrema-destra-avanguardia-nazionale-40682.htm

Il prete che sussurrava ai boss

L'uomo che sussurrava ai mafiosi ha settant'anni, gli occhi piccoli, i capelli brizzolati, la pelle liscia, la faccia rotonda, lo sguardo fisso, un sorriso inciso sul volto da due sottili rughe che gli incorniciano le labbra e un ricordo nitido di quello che successe la mattina del 30 maggio 1993 di fronte al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: "Pensi a un nome lei, caro monsignore". 

L'uomo che sussurrava ai mafiosi ha un passato nelle parrocchie di Siena, una lunga esperienza nelle carceri toscane, un tosto addestramento alle scuole diplomatiche e una storia da raccontare su quello che Papa Montini gli mostrò a Castel Gandolfo tre giorni prima che Aldo Moro venisse ucciso dalle Brigate Rosse: "Guardi cosa c'è lì sul tavolo, caro monsignore". 

L'uomo che sussurrava ai mafiosi, e che a volte sussurrava anche ai brigatisti, ai terroristi, ai camorristi, agli assassini e ai semplici criminali, ha una biografia che si intreccia con i fatti di alcuni fra i più indecifrabili misteri d'Italia e contiene diversi elementi che danno un senso a molte delle scene recitate nella famosa commedia intitolata "Le trattative stato-mafia".

L'uomo che sussurrava ai mafiosi si chiama Fabio Fabbri, è stato per vent'anni il braccio destro del più famoso cappellano d'Italia (don Curioni), ha lavorato a fianco di due Papi (Montini e Wojtyla), di tre presidenti della Repubblica (Leone, Pertini, Scalfaro), di due ministri della Giustizia (Martelli e Conso), di due ministri dell'Interno (Scotti e Mancino), e tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Novanta è diventato il simbolo di quella naturale zona grigia maturata nei secoli tra il mondo delle istituzioni e il mondo della criminalità organizzata.

Insomma, sì: parliamo dell'intrigante e oscuro universo dei cappellani delle carceri, e di tutti quei preti che nottegiorno vivono le prigioni provando a trattare, ad ascoltare, a mediare, a incoraggiare, a rincuorare, a stimolare, ad assistere, e magari anche a convertire, e non necessariamente dal punto di vista religioso, tutte quelle persone che da dentro gli istituti penitenziari cercano di rimettersi in sintonia con il mondo reale, e tentano di far arrivare, per quanto possibile, la propria voce anche al di là delle sbarre.

L'uomo che sussurrava ai mafiosi lo incontriamo a Roma, nelle stesse ore in cui magistrati, giornalisti, editorialisti, avvocati, direttori e fondatori di giornali si massacrano sui quotidiani attorno alle appendici varie di quel mostro giuridico chiamato "trattativa stato-mafia". Don Fabbri ha letto tutto quello che c'era da leggere sulle accuse a Nicola Mancino, sulle insinuazioni lanciate contro Giorgio Napolitano, sulle critiche a Oscar Luigi Scalfaro, sulle teorie di Antonino Ingroia; ma, come gli capita ogni volta che i suoi occhi si ritrovano a contatto con tutte le storie legate alla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e alla fine della stagione delle stragi, con il pensiero, don Fabbri, non riesce a non andare ancora a quella mattina del 1993: quando all'improvviso Oscar Luigi Scalfaro convocò al Colle la coppia dei cappellani più famosa d'Italia: don Fabbri e don Curioni.

I giorni erano piuttosto caldi, diciamo, e al centro delle attenzioni vi era il dossier relativo all'applicazione del carcere duro per i mafiosi (la famosa estensione del 41 bis, modificato e irrigidito dal governo l'8 giugno del 1992, sedici giorni dopo la strage di Capaci). Tre mesi prima della convocazione di Curioni e Fabbri, all'inizio di febbraio, in alcune carceri italiane si era infatti cominciato a diffondere un certo clima di rivolta contro il 41 bis: a Napoli, per esempio, al reparto Venezia, settore riservato ai detenuti più pericolosi del carcere di Poggioreale, alcuni camorristi, per protestare, avevano ucciso un sovrintendente della polizia penitenziara; e in quelle stesse ore, mentre il governo come reazione all'omicidio decideva di estendere l'applicazione del 41 bis a tutto l'intero penitenziario, i familiari di alcuni boss mafiosi stavano preparando una lettera indirizzata al presidente della Repubblica (arrivò il 17 febbraio) in cui si chiedeva a Scalfaro, in quanto "rappresentante e garante delle più elementari forme di civiltà", di prendere posizione contro il 41 bis e di togliere di mezzo "gli squadristi al servizio del dittatore Nicolò Amato".

Nicolò Amato, ai tempi, era il numero uno del Dap (il dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, "organo di coordinamento dell'ordine e della sicurezza delle carceri", che all'epoca aveva persino la possibilità di firmare autonomamente i decreti delegati sul 41 bis), e la ragione per cui Scalfaro convocò Curioni e Fabbri era legata proprio al nome di questo apparentemente anonimo burocrate statale. "Scalfaro - racconta oggi Fabbri, nipote dell'ex vescovo ausiliare di Firenze Giovanni Bianchi, ex viceparroco della chiesa Santo Spirito di Siena, ex cappellano del carcere della sua città, e con un passato nella scuola dei diplomatici della Santa Sede - ci chiamò, ci fece salire nella sua stanza privata, ci fece accomodare, ci guardò negli occhi, ci rivelò tutta la sua preoccupazione rispetto alla situazione delle carceri e poi, alla fine della nostra discussione, ci disse chiaramente che era arrivato il momento di sostituire il direttore generale del Dap, e di pensare noi stessi a un possibile sostituto per quel ruolo importante.

Scalfaro ci confidò che con Amato non aveva un buon rapporto, ci raccontò che il numero uno del Dap si comportava in modo altezzoso e ci fece capire che a suo avviso non poteva più essere egli la persona giusta a cui affidare in quel momento il coordinamento delle carceri italiane. Noi fummo presi alla sprovvista, e, mentre pensavamo a cosa rispondere, Scalfaro ci disse che non gli occorreva subito un nome, ma che una risposta sarebbe stata apprezzata il giorno dopo quando l'allora ministro della Giustizia Giovanni Conso, così ci disse Scalfaro, ci avrebbe ricevuto per parlare proprio della questione". E così andò. "Il giorno dopo - continua don Fabbri - arrivammo al secondo piano di Via Arenula, entrammo nell'ufficio di Conso e mentre il ministro ci chiese se avevamo qualche nome da suggerire per rimpiazzare Amato a me venne un lampo: guardai Curioni e gli sussurrai a voce forse più alta del dovuto il nome di Adalberto Capriotti.

Capriotti all'epoca era un magistrato di Trento, un buon cattolico, uno serio ma non rigido, e un personaggio attento e vicino al mondo dei cappellani. Curioni stava per rispondermi con un cenno di intesa; ma, poco prima che Curioni potesse dirmi qualcosa, Conso si alzò in piedi, si avvicinò a una vecchia cassettiera di legno, prese un librone molto grande, cominciò a sfogliarlo, e iniziò a leggere le caratteristiche di Capriotti, la sua età, la sua storia e la sua posizione, e dopo pochi minuti disse di sì: ‘D'accordo, per me può andare'. E in effetti così andò nuovamente: quattro giorni dopo, il 4 giugno, Amato fu cacciato dal Dap e Scalfaro e Conso nominarono come capo del dipartimento proprio lui: il nostro Capriotti".

La scelta improvvisa di Capriotti e la destituzione dal vertice del Dap di Nicolò Amato coincise con una svolta radicale nell'approccio scelto dallo stato e dalle istituzioni con il mondo delle carceri e indirettamente con il mondo della criminalità organizzata. Capriotti, che, come detto da Fabbri, era "uno assai attento e vicino al mondo dei cappellani", condivideva le preoccupazioni espresse nei mesi precedenti sulle condizioni delle carceri dai 235 cappellani rappresentati nel consiglio pastorale italiano proprio da don Fabbri e don Curioni. E proprio come i due cappellani, Capriotti era "indignato" per l'applicazione così severa e inumana del 41 bis, e durante la sua esperienza alla guida del Dap non fece mai mistero delle sue opinioni sul tema del carcere duro: al punto che, senza nessun sotterfugio ma in modo trasparente, nei mesi successivi iniziò a coordinare una campagna martellante rivolta al governo per rivedere radicalmente le norme sul 41 bis.

Una campagna che ebbe il suo primo atto pubblico in una nota scritta - proprio dal Dap - il 26 giugno 1993, in cui Capriotti, invocando "un segnale di distensione" e richiedendo una "diminuzione del 10 per cento dei decreti 41 bis, una riconferma dei decreti per i boss prossimi alla scadenza annuale e un dimezzamento della durata del 41 bis da un anno a sei mesi", delineò, anche qui in modo trasparente, quella che era diventata una nuova e più complessa strategia giudiziaria. Una strategia che nei mesi si manifestò attraverso un'altra serie di episodi di cui Capriotti fu sempre protagonista. E proprio su questa scia, il 29 luglio arriva una seconda nota del Dap, che sulla falsariga di quella precedente indica - questa volta in modo più esplicito - come "la delicata situazione generale imponga da una parte di soddisfare le esigenze di sicurezza e di contrasto alla criminalità organizzata e dall'altra di non inasprire inutilmente il clima all'interno degli istituti di pena".

Il 7 agosto, poi, è il segretario del Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza, Giuseppe Tavormina, a inviare a Nicola Mancino (allora ministro dell'Interno) un documento in cui mette in chiaro come la strategia del carcere duro avrebbe contribuito ad aggravare la tensione nel paese, e non a stemperarla: "Il nesso tra gli attentati mafiosi e il 41 bis - scrive nell'appunto Tavormina, riferendosi agli attentati del 27 e del 28 luglio alla chiesa di San Giorgio al Velabro, alla basilica di San Giovanni, a Roma, e al Padiglione di arte contemporanea di n via Palestro a Milano - è una possibile matrice dell'ondata stragista". Passano i giorni, passano i mesi, ci si avvicina alla fine dell'anno, il Dap e i cappellani continuano, alla luce del sole, la loro battaglia per la revisione del carcere duro, e nel giro di tre giorni, a cavallo tra il 29 ottobre e il primo novembre, succede quello che fino a pochi mesi prima nessuno avrebbe mai immaginato potesse succedere: il Dap invia una richiesta scritta al ministro Giovanni Conso (e per conoscenza anche al procuratore capo di Palermo, Gian Carlo Caselli, e al presidente dell'Antimafia, Luciano Violante) per chiedere "il rinnovo del regime speciale solo nei confronti di quei soggetti che nell'ambito della criminalità organizzata rivestono posizioni di particolare rilievo e lasciare decadere il provvedimento nei confronti di quei detenuti di minore spessore criminale".

Questa volta la richiesta va a buon fine, finalmente i cappellani possono esultare e tre giorni dopo quella richiesta succede che il ministro Conso (chissà se davvero in "perfetta solitudine" come ha raccontato qualche mese fa ai magistrati) lascia clamorosamente decadere i primi 140 decreti sul 41 bis (i successivi 567 decadranno più avanti, nel gennaio 1994). Eccola qui, secondo il capo dei cappellani, la vera storia sul 41 bis. Altro che estorsione. Altro che ricatto. Altro che cedimento. Altro che inginocchiamento dello stato. "Vedete - continua Don Fabbri - io non credo che si possa parlare di chissà quale trattativa, e anzi credo che la storia sul 41 bis vada letta sotto una lente di ingrandimento diversa rispetto a quella che è stata impugnata da alcuni pubblici ministeri.

Le cose andarono in modo semplice: noi cappellani avevamo avvertito le istituzioni che un irrigidimento delle misure di sicurezza non avrebbe portato alcun tipo di beneficio, e che anzi avrebbe contribuito a peggiorare e a rendere ancora più disumano il già disumano regime carcerario. Scalfaro, evidentemente, si mostrò sensibile alle nostre osservazioni e sfruttò la nostra esperienza per portare avanti non un gesto distensivo nei confronti della mafia ma semplicemente un atto di buon senso". Scalfaro, dunque. L'ex presidente della Repubblica - che conosceva Curioni dagli anni in cui il monsignore lavorava come cappellano al carcere di San Vittore e in cui Scalfaro lavorava come magistrato alla Corte d'Assise di Novara - dimostrò anche in altre occasioni di avere una certa predisposizione a prestare attenzione a quel canale naturale di mediazione con il mondo della criminalità che era l'universo dei cappellani.

E prima del rapporto con Fabbri e Curioni, Scalfaro innescò altre simil-trattative anche negli anni in cui prestò servizio come ministro dell'Interno (1983-1987): quando cioè, per esempio, non fece mistero di considerare "una sua persona di fiducia" un personaggio divenuto famoso negli anni del terrorismo rosso come suor Teresilla. Suor Teresilla, forse qualcuno lo ricorderà, negli anni Ottanta si affermò come uno dei canali di comunicazione, e di trattativa appunto, tra il mondo delle istituzioni e il mondo delle Brigate rosse. Suor Teresilla, all'epoca, pur essendo criticata da alcuni magistrati che vedevano in lei il simbolo di una pericolosa contiguità tra lo stato e le Br, fu sempre molto rispettata, e anche quando negli anni Novanta divenne a tutti gli effetti "referente dei terroristi rossi" (fu a lei che il brigatista Valerio Morucci, protagonista del rapimento di Moro, consegnò il suo memoriale, nel 1990, affinché lo facesse avere al presidente della Repubblica Francesco Cossiga) a nessuno passò mai per la testa di attaccarla in quanto "simbolo di un cedimento dello stato" nei confronti del terrorismo rosso.

Anzi, quando anni dopo Teresilla venne travolta e uccisa da un pirata della strada (2005), anche giornali solitamente schierati contro ogni forma possibile ed esistente di trattativa decisero di descrivere Teresilla non come una spregiudicata mediatrice tra lo stato e le Br ma come (scrisse Repubblica) "una donna avventurosa che si è fatta strumento in carne e ossa di riscatto e riconciliazione maneggiando segreti di stato e domande di grazia". "Francamente - dice don Fabbri, oggi relegato dalla chiesa nella sua piccola parrocchietta senese - io credo che l'accezione dolosa che i pm danno alla parola ‘trattativa' derivi dal fatto che alcune persone si sono messe in testa di riscrivere a loro piacimento la storia d'Italia non per trovare e scoprire la ‘verità' ma per dimostrare più che altro le proprie teorie o le proprie personali visioni del mondo".


Don Fabbri oggi è dunque prudente nel maneggiare la parola "trattativa" rispetto agli infuocati anni Novanta, e sul tema in questione segue la stessa linea adottata dal generale Mario Mori: non ci fu alcuna trattativa segreta tra la stato e la mafia ma vi furono semplicemente dei contatti trasparenti e alla luce del sole di alcuni rappresentanti delle istituzioni con alcuni "rappresentanti della criminalità" (per esempio Mori con Vito Ciancimino nel 1992, quando il generale cercò di portare l'ex sindaco mafioso di Palermo sulla strada del pentimento) e di alcuni "rappresentanti della criminalità" con alcuni esponenti delle istituzioni (per esempio i carcerati mafiosi con il mondo dei cappellani, del Dap e indirettamente dunque con le stesse istituzioni). Riavvolgendo però il nastro e tornando agli anni in cui per la prima volta venne testata la solidità della rete diplomatica costruita dai cappellani, Fabbri ammette che effettivamente in un'occasione del tutto particolare lo stato e la chiesa fecero insieme affidamento proprio su di loro (alla coppia Fabbri-Curioni) per provare a impostare quella che oggi lo stesso cappellano senese non ha difficoltà a definire la "grande trattativa".

Il nastro va dunque riavvolto al 1978 e ai giorni immediatamente successivi al rapimento di Aldo Moro. Ai tempi, Curioni e Fabbri si erano da poco insediati al coordinamento dei cappellani delle carceri e appena due anni dopo l'ingresso formale al terzo piano di Via Giulia (doveva aveva sede l'ufficio dei due cappellani) a un certo punto squillò il telefono e dall'altra parte della cornetta Curioni si ritrovò lo storico braccio destro di Paolo VI: don Pasquale Macchi, segretario di stato. Siamo a fine marzo: Aldo Moro è stato rapito da pochi giorni dalle Br e la Chiesa decise di organizzarsi per dare il suo contributo a una possibile trattativa. Lo fece su due fronti: da un lato con l'attività singola del famoso don Antonello Mennini (il prete che si dice avrebbe persino ricevuto dai brigatisti il via libera a confessare Moro prima di essere ucciso) e dall'altro con la coppia Fabbri-Curioni. "Accadde tutto all'improvviso - ricorda Fabbri - Don Macchi telefonò a Curioni, gli disse che il Santo Padre voleva intervenire, gli spiegò che Montini era convinto che la malavita con cui noi cappellani eravamo venuti a contatto potesse sapere qualcosa di importante e ci chiese così, direttamente, di cercare un canale per arrivare a Moro.

In un primo momento, ci limitammo ad attivare i nostri contatti, e ci spostammo a lungo nel carcere di San Vittore, dove Curioni aveva delle ottime fonti; e proprio le fonti di Curioni ci diedero la possibilità di mettere per primi le mani sulle famose foto di Moro, quella con il lenzuolo rosso con la stella a cinque punte dietro la schiena di Moro e quella con una copia della Repubblica in mano datata 19 marzo 1978. Dopo di che, pochi giorni prima che l'ex presidente del Consiglio venisse ucciso, ci fu una piccola svolta: ci rendemmo conto che forse una soluzione era possibile, e che era possibile liberare Moro: fu in quel momento che don Macchi parlò con Curioni e ci convocò direttamente a Castel Gandolfo, a casa del Santo Padre". E lì Fabbri vide qualcosa di clamoroso che non aveva mai raccontato prima d'ora. "Era il pomeriggio del 6 maggio 1978 e a un certo punto, quando arrivammo da Montini, il Papa ci accompagnò nel suo studio privato, ci fece avvicinare a una gigantesca consolle coperta da un lenzuolo azzurro, e poi, lo ricordo perfettamente, con un rapido gesto della mano sollevò il lenzuolo e ci mostrò, ben disposte sulla consolle, una serie infinita di mazzette di dollari messe una accanto all'altra. ‘Sono dieci milioni di dollari', ci disse Montini, e ci spiegò che quelli erano soldi che la chiesa aveva messo a disposizione per pagare il riscatto di Moro. Non fu sufficiente, però: qualcosa che non abbiamo mai capito successe nei giorni successivi e quei soldi purtroppo non arrivarono mai a chi dovevano arrivare". Trattative, trattative, trattative.

Ché in fondo il senso della storia di don Fabbri (e di riflesso di don Curioni, morto nel 1996) questo è: un modo diverso di leggere gli "anni delle trattative", un modo diverso di raccontare quello che alcuni magistrati definiscono "il patto delle istituzioni con le cosche" e un modo diverso di esplicitare un piccolo dubbio che alcuni giorni fa è saltato persino all'occhio del solitamente rigidissimo procuratore capo della procura di Palermo: quel Francesco Messineo che lo scorso 14 giugno non ha messo la propria firma in calce all'atto di notifica della conclusione delle indagini "sulla trattativa stato-mafia" (atto firmato da Nino Di Matteo e Antonio Ingroia) motivando indirettamente la sua scelta qualche giorno prima durante un'audizione di fronte all'Antimafia, quando Messineo, ignorato da quasi tutti i giornali, a proposito delle "volontà trattativiste delle istituzioni" scelse più o meno le stesse parole utilizzate da don Fabbri in questa chiacchierata.

"Se per trattativa si vuole intendere una formale trattativa con plenipotenziari seduti ai lati del tavolo, questo non vi fu certamente", disse Messineo, ammettendo poi, sempre a proposito di trattativa, che qui "si potrebbe parlare di una ragion di stato interpretata da pochi soggetti, secondo loro particolari orientamenti e secondo una loro particolare visione, nell'intento - in sé astrattamente lodevole - di prevenire le stragi". Lodevole, già. E chissà che allora anche le parole di Messineo messe a fianco a quelle di don Fabbri non siano lì a testimoniarci che, a voler guardar bene, la storia sulla temibilissima "trattativa stato-mafia" in fondo è un caso già chiuso da tempo.

Claudio Cerasa per Il Foglio da http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/non-siamo-stato-noi-la-versione-sacra-della-trattativa-stato-mafia-raccontata-da-fabio-41573.htm

MARIO MORETTI: spia o puro rivoluzionario?

Studiare le Brigate Rosse comporta un passaggio chiave: interpretare la figura controversa di Mario Moretti, leader incontrastato delle BR dal 1975 al 1981. Difficile riuscire a parlarne in modo serio senza cadere in facili approssimazioni. Due correnti di pensiero si contrappongono definendolo il più puro dei rivoluzionari o una spia al servizio del potere che fingeva di voler abbattere. Le cose probabilmente non sono così semplici.
Moretti nasce a Porto San Giorgio nelle Marche il 16 gennaio 1946. A finanziare i suoi studi la famiglia nobile, vicina a posizioni fasciste, Casati Stampa di Soncino. Quei Camillo e Anna protagonisti nel 1970 di un clamoroso caso di cronaca, quando il marchese Camillo uccise la bellissima moglie e il giovane amante di lei, prima di suicidarsi. La loro villa a San Martino di Arcore sarà poi acquistata da un giovane imprenditore, tale Silvio Berlusconi.
Diplomatosi come perito industriale, all'inizio del 1968 Moretti è a Milano in cerca di lavoro. Ha con sé due lettere di raccomandazione: una di Ottorino Prosperi, rettore del Convitto di Fermo, per un posto all'università Cattolica, l'altra proprio della marchesa Anna Casati, per un impiego alla Sit-Siemens. Lo assumono in fabbrica.
Dai rapporti con i Casati Stampa nascono le prime illazioni sul conto di Moretti. Ma anche di Renato Curcio si sa che da ragazzo frequenta un collegio cattolico e che ad Albenga milita dapprima nel gruppo "Giovane nazione", quindi in "Giovane Europa", due organizzazioni fondate dal belga Jean Thiriat, vicine all’estrema destra. Non per questo la figura di Curcio si è mai prestata a ambigue interpretazioni.
Il 29 settembre 1969, in una comune di piazza Stuparich, Moretti si sposa con Amelia Cochetti, maestra d’asilo. Avranno un figlio, Marcello Massimo.
Alla Sit-Siemens conosce Corrado Alunni, Giorgio Semeria, Paola Besuschio, Pierluigi Zuffada, Giuliano Isa, Umberto Farioli, tutti futuri membri delle Brigate Rosse. Partecipa al Collettivo Politico Metropolitano(CPM), il gruppo che darà vita alle Brigate Rosse. Fin dall’inizio, con Corrado Simioni, Moretti è per la scelta della lotta armata, una strategia che Curcio e Franceschini osteggiano fortemente, ritenendo non maturi i tempi. Vanni Molinaris, Corrado Simioni e Duccio Berio lasciano l’organizzazione e fondano a Parigi la scuola di lingue Hyperion. Moretti e altri, come Prospero Gallinari, lo seguono.
Qualcuno, riferendosi ai fondatori dell’ Hyperion, parla di Superclan. Una struttura iper clandestina dai contorni indefiniti. Con il Superclan Moretti è in stretto contatto ma, dopo qualche tempo, fa ritorno nelle BR insieme a Prospero Gallinari.
Il 30 Giugno 1971, a Pergine di Valsugana, partecipa con Renato Curcio a una rapina per autofinanziamento. È la sua prima azione. Moretti all’interno delle BR si mostra sicuro di sé, pronto a tutto e soprattutto capace di assumersi tutte le responabilità del caso. Ma non sempre il suo comportamento è ineccepibile. Spesso pasticcia in modo grossolano.
Come durante un sequestro lampo di cui Moretti si occupa personalmente: prende l'ostaggio, lo carica in macchina, gli scatta una fotografia e lo rilascia. Ma al momento di disegnare la stella a 5 punte, aggiunge un vertice in più e il simbolo delle BR si trasforma nella stella di David. La foto viene pubblicata dal Corriere della Sera. Era un messaggio al Mossad? Voleva dimostrare di poter fare qualsiasi cosa all’interno delle BR?
Dubbi anche per il mancato rapimento del democristiano Massimo De Carolis, affiliato alla loggia massonica P2. Una settimana prima del sequestro, De Carolis sparisce dalla circolazione. Ma non basta, perché carabinieri e polizia decapitano l'intera organizzazione, salvando soltanto il gruppo dirigente. Nella "prigione del popolo" di Via Boiardo le forze dell'ordine trovano una scatola da scarpe con fotografie di Curcio e altri negativi compromettenti. La scatola l'ha lasciata Moretti, che agli altri compagni aveva assicurato di averla distrutta come da accordi. Mentre è in corso la perquisizione, Moretti arriva sul posto guidando la macchina della moglie, che poi lascia parcheggiata fuori dallo stabile. Grazie a questa disattenzione i carabinieri arriveranno fino alla moglie di Moretti: sentendosi braccato la scelta della clandestinità è pressocchè obbligata.
Nel 1974 Curcio e Franceschini sono arrestati grazie all’'infiltrato Silvano Girotto, un ex frate soprannominato frate Mitra. Moretti avrebbe ricevuto una telefonata da una fonte anonima due giorni prima dell'incontro tra i capi storici e Frate Mitra a Pinerolo. Incontro a cui avrebbe dovuto partecipare lo stesso Moretti. Moretti si giustifica con i compagni dicendo che non era riuscito ad avvertirli. I precedenti incontri tra Frate Mitra e i capi brigatisti erano stati fotografati e le fotografie inviate all'autorità giudiziaria. A uno di questi incontri aveva partecipato anche Mario Moretti, ma il suo nome non veine preso in considerazione.
Fuori dai giochi Franceschini e Curcio, Moretti adotta immediatamente una linea più dura nella lotta armata contro lo Stato. Nel 1975 Mara Cagol viene uccisa e Giorgio Semeria rimane gravemente ferito: Moretti è il leader indiscusso delle BR. Si trasferisce a Roma, dove progetta la "campagna di primavera": sarà lui a gestire il sequestro, la prigionia e la morte di Aldo Moro.
Intanto Renato Curcio evade dal carcere di Casale Monferrato. Nel gennaio 1976 i vertici delle BR si incontrano. Moretti, sovvertendo le regole della rigida compartimentazione che le BR si erano date, insiste per trascorrere la notte nell’abitazione di Curcio, di cui non conosceva il recapito. Due giorni dopo la polizia fa irruzione nell’appartamento e arresta per la seconda volta Curcio.
Alle Carceri Nuove di Torino, al VI braccio, secondo piano, Curcio e Franceschini si ritrovano. Curcio dice a Franceschini: "Mi sono convinto che Moretti è una spia, è lui che mi ha fatto arrestare".
La rivelazione di Curcio, unita ai timori di Semeria, che riteneva Moretti una spia per una serie di covi caduti a Milano, spingono le Br ad aprire una inchiesta nei suoi confronti. L’inchiesta, portata avanti da Bonisoli e Azzolini, lo scagiona.
Negli anni successivi, per sua stessa ammissione, il pluriricercato Moretti si recherà numerose volte a Parigi. Durante il sequestro Moro viaggia ripetutamente sull’asse Roma-Firenze. Sfugge sempre a tutti i controlli.
Mario Moretti ammanettato Nel 1981 le BR a Milano sono state quasi completamente annientate. Moretti tenta di ricostruire un nuovo nucleo milanese. Per farlo si espone a rischi eccessivi. Con Enrico Fenzi, cognato di Giovanni Senzani, deve incontrare giovani da arruolare. Fra loro Renato Longo, malvivente e informatore della Digos di Pavia. Al momento dell’incontro, il 4 Aprile del 1981, dopo oltre dieci anni di latitanza, Moretti, la "primula rossa delle Br", viene arrestato. È condannato a sei ergastoli.
Nel carcere di Cuneo subisce un misterioso agguato. Ad aggredirlo con un coltello, ferendolo al braccio, il delinquente comune Salvador Farre Figueras. A salvare lui e Enrico Fenzi dall'aggressione di Figueras è Agrippino Costa che istintivamente si frappone per difendere i compagni. Solo dopo l'intervento di Costa, le guardie aprono i cancelli. A loro Figueras consegna il coltello.
Non ha mai collaborato alle indagini, non si è mai pentito né dissociato. A gennaio 1993, dopo meno di dodici anni di carcere, usufruisce del primo permesso premio.
Nell'estate dello stesso anno concede una lunga intervista a Carla Mosca e Rossana Rossanda, che diviene un libro, “Brigate rosse : una storia italiana”. Lo pubblica Anabasi, casa editrice che visse appena un triennio, diretta da Sandro D’Alessandro ex militante del Superclan.
Nel 1994 ottiene la libertà condizionata. Ora abita a Milano dove è coordinatore del laboratorio di informatica della Regione Lombardia guidata da Roberto Formigoni.
Il senatore Sergio Flamigni ha dedicato una fetta dei suoi importanti studi alla figura di Moretti, da lui definito come “la sfinge”. Nella palazzina di via Gradoli 96, dove Moretti abitava durante il sequestro Moro, c'erano 24 appartamenti intestati a società immobiliari, tra i cui amministratori figuravano personaggi appartenenti ai servizi segreti. Nella stessa palazzina al secondo piano vi è un’informatrice della polizia, al n° 89 di via Gradoli abita un ex ufficiale dei carabinieri, agente segreto militare e compaesano di Moretti. Sono questi solo una piccola parte dei dati raccolti da Flamigni. Che sostiene: “la vera storia delle Br morettiane e del delitto Moro è in gran parte ancora da scrivere.”
Come sintetizzò il Generale Dalla Chiesa nella sua deposizione alla commissione sul terrorismo nel 1982: “Le BR senza Moretti sono una cosa. Le BR con Moretti sono un’altra.”
Ascoltando dagli archivi Rai la telefonata fatta alla famiglia Moro pochi giorni prima dell'assassinio dello statista, è difficile rintracciare il feroce e sanguinario leader delle BR. Più facile avvertire una persona disperata.
Mario Moretti non era una spia, forse qualcosa di più.

da http://www.valeriolucarelli.it/moretti.htm
A parte che Piazza Civitella Paganico è a meno di 500 metri in linea d’aria dall’Aeroporto dell’Urbe sulla Salaria (ROMA NORD).

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E che Civitella Paganico [D], in provincia di Grosseto, è a metà strada tra la Cassia e l’Aurelia (strade consolari di ROMA NORD).

A parte che la suora vede un casolare fuori Viterbo (a NORD di ROMA). E che Prodi & co. si riuniscono in un casolare tirando fuori i nomi di Viterbo [A] (again) attraversata dalla Cassia, Bolsena [B] attraversata dalla Cassia e Gradoli [C] a pochissimi km dalla Cassia, e che tutti e tre questi centri sono a NORD di ROMA.

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A parte che Via Viterbo [A] (traversa di Via Salaria) Via Bolsena [B] (traversa di via Cassia & via Flaminia) e Via Gradoli [C] (quest’ultima è una traversa di Via Cassia) sono tre vie dall’interno all’esterno di ROMA NORD. Così come anche Via Monte Nevoso. E che queste tre vie sono perfettamente allineate su una linea retta, sulla mappa, di congiunzione.

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Ma l’ho notato solo io che Prodi è presente nel ’78 al delitto Moro, diventa ministro e pro presidente dell’IRI. è presente al conflitto Berlusconi De Benedetti e diventa nel ’96 capo dell’Ulivo, gestisce l’Euro prima come presidente del consiglio, poi come presidente della UE, poi di nuovo come presidente del consiglio, presiede Nomisma e fa il gioco degli americani e della grande finanza internazionale? Lo sapete che con l’Euro si cresce di meno? negli ultimi anni l’1,5 mediamente contro il 2,5 dei paesi UE non euro? E questo favorisce la Russia???
Chi ha messo in imbarazzo gli USA, Prodi o B, con le sue frequentazioni di “regimi forti”?
Ci può essere una certa connessione universitaria MORO-SOLOKOV-(studente universitario bolognese)-PRODI. Ora, bisogna sapere che uno degli sponsor di Prodi negli anni Ottanta fu De Mita, erede politico di Moro all’interno della DC. E che, per quanto Berlinguer (cugino di Cossiga, il qual atlantismo non andreottian-sindoniano-gelliano va in crisi proprio nel sequestro Moro) potesse rimanere autonomo da Mosca, il PCI vantava esponenti del calibro di Cossutta che se avessero messo le mani su segreti NATO quali Stay Behind avrebbero avuto un orgasmo multiplo a comunicarli a Mosca. E Moro voleva il PCI al governo. Se Solokov ha fatto qualcosa è stato molto probabilmente l’essere l’angelo custode in incognito in ambiente universitario dell’attività di Moro, non presupponendo o cmq non potendo coprire anche le operazioni militari in stile via Fani. Anzi, probabilmente via Fani esiste proprio perché non si può sfruttare il marasma studentesco di quegli anni nelle facoltà dove Moro insegnava, e che Moro non contestano in misura tale da essere arrivata fino a noi in maniera plateale.

Siete studenti di sn: contesterete magari i miglioristi (Berlinguer, magari Napolitano) e non i massimalisti (Cossutta, Ingrao…) del PCI. Ma anche la DC ha falchi (Kossiga, Andreotti) e colombe (Moro). Rapite i falchi che vi manganellano per strada o le colombe che vi vogliono al governo?

Via Gradoli era di Moretti. Non delle BR. (A finanziare i suoi studi la famiglia nobile, vicina a posizioni fasciste, Casati Stampa di Soncino. Quei Camillo e Anna protagonisti nel 1970 di un clamoroso caso di cronaca, quando il marchese Camillo uccise la bellissima moglie e il giovane amante di lei, prima di suicidarsi. La loro villa a San Martino di Arcore sarà poi acquistata da un giovane imprenditore, tale Silvio Berlusconi. da http://www.valeriolucarelli.it/moretti.htm)

commento a http://www.massimopolidoro.com/crimini-e-gialli/la-seduta-spiritica-di-prodi.html